Ezio Guaitamacchi: “La mia storia del rock tra approfondimento e divulgazione”

Ez con libro e _Lilli_E’ sempre difficile tracciare un identikit di Ezio Guaitamacchi. Il direttore di “Jam”, una delle testate che alla sua “chiusura” ha lasciato un vuoto incolmabile nell’editoria musicale, è giornalista ma anche scrittore, autore, conduttore di programmi radio-televisivi, docente, musicista. Il rock è la sua vita e di questo ha scritto a profusione. Da esso non riesce a distaccarsi neanche quando gioca a tennis, altra sua grande passione, riuscendo a parlare di quella che può essere identificata come la colonna sonora della sua vita. Il suo ultimo libro “La storia del rock”, edito da Hoepli, è una narrazione esauriente ed appassionata che, come sottolinea Renzo Arbore nella prefazione, consente “di conoscere

l’evoluzione di un fenomeno artistico, culturale e di costume che ha cambiato il mondo”.

Dopo la breve “vacanza” di “Psycho Killer” sei tornato a scrivere di musica. Perchè una storia del rock?
Il 5 luglio 1954 un ragazzotto di nome Elvis, che faceva il camionista ma sognava di diventare un cantante, incide il suo primo brano negli studi della Sun Records a Memphis, Tennessee. Senza saperlo, inciampa nel suo destino: esce da quei locali con in testa la corona di re del rock ‘n’ roll e, sempre in modo inconsapevole, dà vita alla più grande rivoluzione artistica e culturale nella storia dell’uomo moderno. 60 anni dopo, godiamo ancora dei risultati di quella grande rivoluzione: nelle mode, nei modi, negli stili di vita e nelle filosofie di pensiero. Sessanta anni dopo è giunto il momento di ripercorrere quella storia fantastica che ha cambiato il mondo.

L’impostazione data è originale. Semplice ed immediata. Cosa ti ha spinto a scegliere questa soluzione?
Trent’anni di direzione e pubblicazione di magazine musicali. Se noti, l’impostazione del lavoro ricorda le “cover story” di JAM. Poi, la casa editrice mi chiedeva un’opera con “diversi livelli di lettura”. Come sai, ho sempre cercato di coniugare approfondimento e divulgazione. Spero di esserci riuscito.

Hai “affidato” la prefazione a Renzo Arbore, tuo compagno di mille avventure. Quanto sei legato a lui?
Renzo Arbore è il più grande entertainer della storia della radio televisione italiana. Quest’anno festeggia 50 anni di carriera in RAI, 30 anni di “Quelli della Notte” (il più grande successo della tv italiana insieme a “Lascia o Raddoppia”) e 25 come ideatore e frontman de L’Orchestra Italiana. Arbore è un punto di riferimento artistico e culturale. Quasi un modello di vita. È anche (o forse soprattutto) una persona amica: lui e tutta la sua famiglia.

La cosa che mi ha stupito nel tuo libro è aver trovato uno spazio dedicato alla black music. Quanto sei appassionato di quel genere?
Ho inserito la “black music” non per mia passione. Il libro è concepito in modo storico e oggettivo. E, storicamente e oggettivamente, la “black music” ha avuto un’importanza fondamentale nella storia del rock. Ne è stata una delle due radici principali (con il blues), l’ha influenzato nei primi anni sessanta (con il soul), l’ha stuzzicato con il funk e l’ha traumatizzato con il rap.

A differenza di altri libri del genere, il tuo contiene delle differenze che conducono il lettore a un immaginario viaggio a ritroso nel tempo.
Come ti dicevo è un discorso “storico” e quindi la contestualizzazione è fondamentale. Lasciami ribadire l’assunto dell’opera: il rock è una forma d’arte. O meglio, una forma d’arte popolare (e cioè legata alla vita) che deve essere analizzata nel momento, nel luogo e nel contesto storico e socio-culturale che l’hanno generata. È una forma d’arte a livello assoluto che, proprio perché arte popolare, ha avuto una influenza straordinaria sulla società del 900. E tutti noi, uomini contemporanei, dobbiamo considerarci essere fortunati perché abbiamo avuto la chance di ascoltare, vedere dal vivo o addirittura incontrare quelli che, tra mille anni, verranno considerati geni assoluti dell’umanità. Perché vedere Bob Dylan cantare sarebbe come ammirare Shakespeare recitare, sentire i Pink Floyd equivarrebbe a osservare Leonardo che dipinge la Gioconda, ascoltare i Rolling Stones sarebbe come trovarsi di fronte a Michelangelo che scolpisce la Pietà.

Non sei solo un giornalista e uno scrittore. Diffondi la musica rock anche attraverso quelli che sono dei veri e propri mini concerti nei quali dimostri di possedere ottimi doti di musicista. Quando è nata questa idea?
Tanti anni fa … circa 20 direi. Avevo pubblicato il mio primo libro “Musica, I Love You” una raccolta di interviste. E l’ho presentato a Milano, allo Zelig, in una serata di festa con un sacco di amici musicisti di professione (Branduardi, Treves, ecc.) e o per passione (Antonio Ricci, Sergio Vastano, Enzo Braschi, Gino & Michele, ecc.). Da allora la cosa si è evoluta. Oggi, faccio circa 60 serate l’anno in compagnia dellla mia partner artistica Brunella Boschetti (una vocalist formidabile) e delle mie chitarre. Raccontiamo, tra aneddoti, suoni e visioni, tante “storie rock”.

Ad un certo punto scrivi che Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath e Uriah Heep possono essere considerati il quadrilatero che ha dato vita all’hard & heavy. Non pensi che questa affermazione sia riduttiva nei confronti del gruppo di Jimmy Page?
Certo, hai ragione. Gli Zeppelin sono stati molto di più: un gruppo imprescindibile che ha infuenzato suoni, atteggiamenti, struttura di 30 anni di rock. E ha creato centinaia di proseliti. Ma in quel contesto serviva inquadrarli. Così come, da un’altra parte, sostengo che loro siano stati l’anello di congiunzione tra la vecchia scena rock blues inglese e la nascente Hard & Heavy.

Nel corso di un nostro incontro avuto alcuni anni fa hai sostenuto che “Sgt. Pepper” è l’album più importante della storia del rock. Sei ancora di questo avviso?
Più “importante”? Assolutamente sì. Per un sacco di motivi: te li devo dire tutti? In genere, ci dedico una lezione al mio Master in Giornalismo e Critica Musicale …

Hai scritto dei 100 dischi ideali per capire il rock e sulle 1000 canzoni che ci hanno cambiato la vita. A parte “Sgt. Pepper” qual è il tuo “secondo” album ideale e la tua canzone preferita?
Non ho una canzone preferita e un “secondo” album ideale non esiste. Dire che se uno (obbligatoriamente) vuol restringere a dieci nomi “il meglio” del rock non può prescindere da Elvis, Dylan, Beatles, Stones, Zep, Pink Floyd, Clash, Springsteen, U2, Nirvana, AC/DC.

Un’ultima domanda che sicuramente vorrebbero farti in tanti. Jam tornerà in edicola?
Non credo. Ma ti do’ un’anteprima: è da poco nata la JAM TV… e sarà il progetto su cui lavorerò in futuro.

Puoi darci qualche anticipazione riguardo questa tua ennesima avventura?
Not yet…

(Pubblicato su MusicalNews.com il 4/05/2015)

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