Maurizio Becker: “Con Classic Rock è un po’ come tornare a casa”

mbecker 2La crisi dell’editoria negli ultimi anni ha visto diminuire il numero delle testate musicali reperibili in edicola. Da circa due anni e mezzo l’editore Luca Sprea ha sfidato ogni avversità con la pubblicazione della versione italiana di “Classic Rock”. Durante una passeggiata per le vie del centro di Roma, Maurizio Becker, caporedattore, ci “apre” le porte di un mensile non solo per nostalgici.
La carta stampata sta subendo un calo di vendite. Classic Rock ha voluto sfidare la crisi, mi sembra un atto coraggioso in questi tempi.
I momenti di crisi rappresentano sempre

un’opportunità. Il mercato è costretto, suo malgrado, a ripulirsi. E Luca Sprea, il nostro editore, è stato bravo a capire che c’era un pubblico pronto per una rivista come questa.

Qualche mese fa Classic Rock ha subito dei cambiamenti. In pratica è stata cambiata tutta la squadra. Quali sono state le difficoltà che avete incontrato tu e Francesco Coniglio?
L’unica difficoltà è stata saltare in corsa alla guida di una macchina che andava già piuttosto bene. C’era il rischio di sbandare e uscire fuori strada. Per fortuna, non è accaduto.

Pur mantenendo la linea editoriale della “casa madre”, avete apportato delle modifiche. Il giornale ora mi sembra più… immediato.
Mi fa piacere. Dal mio punto di vista, ho cercato di intervenire su quelli che mi sembravano i punti deboli. Ma, ripeto, chi ci ha preceduto stava comunque ottenendo buoni risultati.

Nel numero di febbraio c’era un articolo in particolare che raccontava le vicissitudini, musicali e non, dei Canned Heat. Ripercorrere le storie dei “nostri” gruppi sarà un vostro punto fermo?
Non meriteremmo di chiamarci Classic Rock, se non facessimo pezzi di quel tipo.

A marzo avete analizzato la discografia degli U2. Nel tuo pezzo consigli ai neofiti di iniziare l’ascolto da “Under a blood red sky”. Qualè il tuo rapporto con il gruppo di Bono e, più in generale, con la loro discografia?
Negli anni ottanta hanno rappresentato qualcosa, in un panorama dominato da tutt’altre estetiche. Oggi molti hanno la memoria corta, ma intorno al 1983-84, a livello mainstream, c’erano solo loro, il Boss e pochissimi altri. Io partii con un gruppo di amici per andarli a vedere, a Roma e poi a Modena. Furono due grandi concerti.

Nel numero di aprile, uscito da pochi giorni, c’è “profumo di anni settanta con i Deep Purple, i Jethro Tull e i Chicago.
Molti di noi sono cresciuti negli anni settanta, e ogni volta che ci capita di affrontare una band o di un artista di quel periodo, è un po’ come tornare a casa. I pezzi sui Deep Purple e sui Jethro Tull sono molto belli, ma forse la lettura più interessante di questo numero è quello sui Chicago, che racconta la parabola di Terry Kath, uno dei chitarristi più talentuosi e criminalmente dimenticati della storia del rock.

In Classic Rock sono stati coinvolte alcune delle firme eccellenti del nostro panorama musicale. Me ne puoi parlare?
Ci terrei anche a dire che sto cercando di tirar dentro Classic Rock gente che il rock in Italia lo ha vissuto per davvero. Sono fiero ad esempio di avere fra i nostri collaboratori Federico Guglielmi, o Antonio Tony Face Bacciocchi, storico leader dei Not Moving, o Fernando Fera, ti ricordi dell’Albero Motore? O ancora Renato Marengo, che cura per noi una rubrica sui talenti ancora sconosciuti. Cito quasi a caso. Francesco Pascoletti scrive da anni di hard, heavy metal e dintorni, Jacopo Meille in questo periodo è il cantante di una vecchia band di culto della New Wave Of British Heavy Metal, i Tygers Of Pan Tang, Eugenio Tassitano è un compositore. Insomma, non siamo solo scribacchini… Uno dei nostri redattori, Luigi Abramo, ad esempio, suona in giro per l’Italia le canzoni dei Beatles, e spesso le traduce in romanesco!

Mi fa piacere aver ritrovato Renato Marengo, uomo appassionato e grande scopritore di nuovi talenti. La sua storia recente mi fa pensare a come sia “chiuso” un programma storico come Demo Rai.
Sì, la chiusura di Demo è stata un danno per tutto un sottobosco di giovani artisti in cerca di una piccola vetrina. Con Renato, che di quel programma è stato l’anima assieme al collega Michael Pergolani, stiamo tentando di fare qualcosa analogo, ma è molto dura con una rivista. La radio è sicuramente molto più potente come megafono.

La tua passione per il rock ti porta ad essere un grande riferimento per noi appassionati con le belle foto che pubblichi su Facebook.
Basterebbe quello per capire come io sia allergico agli steccati. Amo la musica. Tutta. E amo chi fa musica. Mi diverto a cercare in rete fotografie di ogni tipo, purché di oggetto musicale. Ne avrò messe insieme forse 10.000, non le ho contate ma potrebbe essere. Ma anche lì, è divertente notare una cosa: gli album più belli sono i meno frequentati, le foto più speciali, sono le meno apprezzate. Curioso, no?

Non solo rock. Hai anche avuto sempre un certo interesse per la musica italiana. Come si conciliano queste due anime?
Hai detto bene: il rock rappresenta la mia storia, la mia passione. La musica italiana, invece, è un grandissimo interesse, maturato negli ultimi 20 anni all’incirca. Diciamo che a un certo punto, ho sentito il bisogno di dare un senso al lavoro che mi ero scelto. E la musica italiana, che da un punto di vista dell’approfondimento giornalistico era quasi un terreno vergine, mi ha ispirato alcune idee.

Classic Rock è la tua seconda esperienza dopo Musica Leggera, un giornale che in molti rimpiangono. Francesco Coniglio aveva avuto una grande idea.
È vero. Una rivista sui personaggi e le storie della musica italiana non esisteva. E non esiste neppure oggi. Francesco Coniglio ha sempre grandi idee. Sono i frequentatori delle edicole che a volte mancano un po’ di fantasia e di curiosità.

Sei autore di uno dei libri di musica più interessanti che io abbia mai letto: “C’era una volta la RCA”.
Grazie. Quel libro, anzi, quell’esperienza, mi ha cambiato la vita.

Devo confessarti che mi capita spesso di rileggerlo e di trovare sempre qualcosa di nuovo. In quelle pagine c’è tanta storia.
E’ stato un lavoro fortunato, nato all’insegna della libertà assoluta. Per questo, sarò eternamente grato a Francesco Coniglio, che come Editore mi ha lasciato carta bianca e mi ha supportato in tutti i modi possibili. E naturalmente, a Lilli Greco, una di quelle due o tre persone che mi hanno aiutato a essere quello che sono oggi.

Chi ha letto quel libro spera che ci sia un seguito. Magari parlerai della sussidiaria ARC nella quale militavano artisti come i Rokes e Patty Pravo, di grande importanza per la nostra musica.
In realtà, stavo lavorando a un secondo libro. Ci sono tantissime storie ancora non raccontate, e momenti inesplorati. Poi sono successe due cose che, una dietro l’altra, hanno bloccato il mio lavoro: prima la morte di Lilli Greco, che per me è stata una mazzata e mi ha reso doloroso il semplice pensare alla RCA Italiana. E poi, la malattia e la successiva scomparsa di mio padre, avvenuta l’anno scorso a maggio. Subito dopo, quando teoricamente avrei dovuto rimettermi a intervistare artisti e uomini RCA per questo libro, mi è arriva la proposta di occuparmi di Classic Rock. E ho dovuto rinviare.

Pensi che nel futuro prossimo su Classic Rock ci sarà una finestra aperta sul nostro periodo beat e sul successivo progressive italiano?
Il pubblico di Classic Rock è abbastanza diffidente verso certe aperture. Ogni volta che ci spostiamo anche leggermente dall’idea condivisa di rock classico, sono scintille. Non ti sarà sfuggito il vespaio scatenato dalla nostra copertina sugli U2. Però il progressive, anche quello italiano, lo trattiamo abitualmente. E sul beat, ogni tanto, qualcosa lo proponiamo: qualche mese fa, pubblicammo un bell’articolo di Luciano Ceri sui contemporanei esordi di Equipe 84 e Rokes.

Un vespaio ingiustificato dal momento che gli U2 sono, a mio avviso, l’ultima vera band rock. Giudicarli per quello che fanno attualmente non può sminuire il valore dei primi otto album.
Assisto a queste polemiche, a volte sanguinosissime, con grande divertimento. Giudizi e gusti personali a parte, abbiamo riletto la loro discografia con gli occhi di oggi. E mi pare che gli anni trascorsi non abbiano granché scalfito l’efficacia di certi dischi.

Ritengo che il compito di Classic Rock sia anche questo. Stimolare i ricordi e provocare le discussioni.
Esatto. altrimenti, sarebbe tutto di una noia mortale.

(Pubblicato su MusicalNews.com l’1/04/2015)

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